Filly di Somma
Ci sono luoghi che non si raggiungono: si ascendono.
Il Vizio è uno di questi. L’ascensore del Sina Bernini Bristol scivola silenzioso verso l’alto, e mentre le porte si aprono all’ottavo piano, si ha la sensazione di entrare in un’altra Roma — una Roma sospesa, rarefatta, che osserva il suo stesso movimento da una distanza gentile.
Qui, tra la luce del rooftop e l’odore lieve del mare, il sushi diventa un gesto poetico, un alfabeto attraverso cui si raccontano identità, memorie, incontri.

Il dialogo invisibile tra due maestri
In cucina non c’è rumore, c’è ritmo.
Lo chef Nagano Tetsuo si muove con la calma di chi conosce il valore del silenzio: il coltello ti sembra scandire il tempo come un metronomo orientale. Ogni taglio è un pensiero, ogni nigiri un haiku.
Accanto a lui, Igles Corelli porta un’altra musicalità: quella dell’Italia che sa reinventarsi senza tradirsi, che si muove tra ricordi e intuizioni, tra terra e mare.
Non si somigliano, e proprio per questo si completano. La loro cucina non è fusione: è un colloquio. Un’unione di sguardi più che di ingredienti.
Uno spazio che respira con la città
Il ristorante, ridisegnato da Valerio Alecci, è un luogo dove la materia si fa leggerezza.
Legno, vetro, luce: elementi che non impongono, ma accompagnano. L’estetica giapponese si avverte come un sussurro, un invito alla concentrazione e alla calma.
Poi c’è la terrazza. Qui Roma appare immensa, indifesa, bellissima.
Il Colle Quirinale, i tetti distesi, le cupole che spuntano tra un’ombra e l’altra: è come se la città stessa volesse assistere alla preparazione dei piatti.
Non si cena: si contempla.
Piatti che diventano racconti
Il pesce arriva al piatto con la grazia di un racconto in prima persona.
Il nigiri di spigola con tartufo e limone non è un semplice incontro tra ingredienti: è il punto esatto in cui due tradizioni si sfiorano come due mani che finalmente si riconoscono.
Gli uramaki con tonno aburi, lampone e pepe sansho hanno qualcosa dell’attimo che precede un viaggio: un istante preciso in cui dolcezza, fumo e spezie si toccano e poi si dividono, lasciando nel palato il ricordo di un passaggio.
I Don, invece, sembrano ciotole in cui è contenuta la quiete: vapore, riso, stagionalità, una morbida armonia che rassicura senza annoiare.
E i piatti mediterranei — i tortelli di Wagyu, il black cod allo yuzu — proseguono la narrazione con un altro ritmo, più caldo, più narrativo, più italiano.





Il lusso che non ha bisogno di voce
Da Il Vizio il lusso non si ostenta: abita i dettagli.
Il servizio che arriva senza fretta, la luce che non giudica, il piatto che non sovrasta — tutto sembra invitare alla gratitudine.
E il prezzo, pur riflettendo l’alta qualità, rimane una promessa mantenuta: circa 90 euro per una serata che difficilmente assomiglia a un semplice pasto.
I riconoscimenti come sigilli di fiducia
Le Due bacchette del Gambero Rosso non sorprendono chi ha già attraversato la soglia del ristorante.
Sono il segno di una coerenza: quella di un luogo che non vuole imitare, ma interpretare; che non rincorre mode, ma custodisce visioni.
Dove il sushi diventa un modo di guardare il mondo
Il Vizio è un luogo di incontri: tra Oriente e Occidente, tra rigore e immaginazione, tra chi cucina e chi osserva.
È un ristorante che chiede tempo e restituisce emozioni.
E mentre Roma si apre sotto la terrazza, sembra suggerire al visitatore un’ultima cosa: che ogni piatto, ogni gesto, ogni profumo è parte di una storia più grande, e che il sushi, qui, non è un cibo — è una forma di ascolto.
